QUOTIDIANO FONDATO NEL 1994
2 agosto 2022
di Daniele Silvestri

La piacevole incombenza di comunicarvi l’aggiunta di due ulteriori date al tour che inizierà fra poco più di un mese, diventa l’occasione per cominciare a darvi qualche notizia in più riguardo allo spettacolo che faremo e a quello che vi dovete aspettare. Intanto le due date, che sono: 8 dicembre – Carpi – Teatro Comunale 11 dicembre – Taranto – Teatro Fusco Poi per quanto riguarda le anticipazioni di cui sopra… rispondo più che altro a un paio delle domande che mi avete fatto in parecchi: 1- la formazione. Sarà la “mia” band al completo, quella delle grandi occasioni: Piero Monterisi – batteria Gabriele Lazzarotti – basso Daniele Fiaschi – chitarre Gianluca Misiti – tastiere Duilio Galioto – tastiere e

Finalmente . E’ stata questa la prima parola pronunciata da Daniele Silvestri ieri sera, appena salito sul palco allestito all’interno del Castello Scaligero di Villafranca di Verona. Finalmente, perchè dopo mesi difficili e nonostante il pericolo di una seconda ondata della pandemia sia tutt’altro che passato si torna a poter suonare ed ascoltare musica dal vivo, con tutto quello che comporta per chi lavora dietro le quinte, visto che tra lavorare e stare a casa senza stipendio ci corre tutta la differenza di questo mondo. Certo, ci sono dei compromessi a cui bisogna scendere e delle regole da rispettare: misurazione della temperatura all’ingresso, mascherine ogni volta che ci si muove dal proprio posto, sedie tutte distanziate un metro dall’altra e

ROMA. Un allestimento scenografico spettacolare e “senza palco”, una grande band con 2 batterie, 9 musicisti, Rancore e le sue barre presenti ad ogni data, tanti ospiti e una scaletta che contiene 25 anni di successi: è questo il prossimo live di Daniele Silvestri La terra dal vivo sotto i piedi. Un tour nei Palasport di tutta Italia, che partirà il 25 e 26 ottobre con un doppio appuntamento a Roma e si preannuncia come un mega show.

Silvestri torna a sorprendere portando in scena il primo concerto “senza palco”, in cui, insieme ai musicisti, non si esibirà su un normale palcoscenico ma su un gigantesco cumulo di terra (richiamo al titolo dell’album) al centro del palasport, mentre un imponente ledwall e un gioco di luci particolarissimo comporranno il resto della scenografia. In scena con lui ci saranno i batteristi Fabio Rondanini e Piero Monterisi, il basso di Gabriele Lazzarotti, le tastiere e i sintetizzatori di Gianluca Misiti, le chitarre di Adriano Viterbini e Daniele Fiaschi, il fagotto e tromba di Marco Santoro, la tromba e percussioni di Jose Ramon Caraballo Armas e le tastiere di Duilio Galioto. Oltre a loro, ospite fisso del tour sarà Rancore.

La scaletta, nata durante le lunghe prove che hanno tenuto Silvestri e la sua band per un intero mese all’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini di Roma, alternerà momenti elettronici tiratissimi, a set più acustici e dilatati, mentre una parte centrale sarà dedicata ai festeggiamenti di questi 25 anni di musica con un vero “concerto nel concerto”: un viaggio nel tempo rigorosamente cronologico dal 1994 ad oggi, con una carrellata senza sosta dei brani iconici e rappresentativi della sua carriera.

Entrato nella storia della musica italiana per essere il primo artista a vincere con una sola canzone il Premio della Critica, il Premio per il Miglior Testo e il Premio della Sala Stampa Radio Tv a Sanremo e anche il Premio Tenco con la penetrante Argentovivo, Silvestri abbandona i fili sospesi di Acrobati, e torna sulla scena live con una produzione dai grandi spazi, in cui il suono si mescolerà alle luci in una parabola musicale e visuale potente e d’impatto, curata in ogni minimo dettaglio, che porta la firma di Giancarlo Sforza alla direzione e progettazione scenografica e quelle di Giorgio Testi e Filippo Rossi alla regia video, mentre un outfit esclusivo per tutta la band è stato pensato ad hoc dalla stylist Maria Vittoria Castegnaro.

Dopo il “triplete” di premi sanremesi, al Tenco è stato riconosciuto come migliore singolo del 2019. E ora arriva un album solare, “La terra sotto i piedi” con un nuovo e fertile “Concime”

Danele Silvestri, ha da sempre l’aria del capitano coraggioso (specie quando guida il trio, FabiGazzè-Silvestri), tipo quella dell’ex “Capitan Futuro” della sua Roma, Daniele De Rossi, che è appena sbarcato alla Boca di Buenos Aires, per giocare laggiù, al di là dell’Oceano, lontanissimo dal biondo Tevere.

Consentiteci l’accostamento calcistico, perché nella stagione musicale in corso, il cantautore romano, dopo il “triplete” sanremese, ha calato il poker. Con il suo brano Argentovivo presentato all’ultimo Festival di Sanremo aveva ammaliato il pubblico con un’interpretazione perfetta, viscerale. Roba forte, specie per stomaci delicati o stati di attenzione sempre più in crisi, affetti da lookdown (sindrome virale da smartphone). Parole e musica talmente potenti da inchiodare tutti davanti al video: dagli adolescenti a cui si rivolge il brano eseguito con il rapper Rancore fino ai genitori chiamati direttamente in causa, «avete preso un bambino che non stava mai fermo, l’avete messo da solo davanti a uno schermo e adesso vi domandate se sia normale se il solo mondo che apprezzo è un mondo virtuale».

L’effetto che ha fatto? Un meritatissimo “Premio della Critica Mia Martini” (il terzo in carriera), il Premio della Sala Stampa Radio Tv Web “Lucio Dalla” e quello per il Miglior Testo “Sergio Bardotti”. Tutti riconoscimenti assegnati da giurie che hanno guardato davvero alla «qualità».

23 maggio 2019
Intervista di Simona Orlando - Il Messaggero

Le latitanze di Daniele Silvestri non sono mai vere assenze. Prima o poi torna da dove è stato raccontando il vissuto e l’osservato. In Acrobati del 2016 predicava il funambolismo per sentirsi leggeri con visioni aeree, nel disco appena uscito “La terra sotto i piedi” cerca invece radici e gravità: «Avevo uno sguardo più poetico che politico, poi è tornata la voglia di sporcarmi mani e piedi. Oggi prevale la necessità di cose concrete, non dico immutabili, quantomeno ferme, che non abbiano la durata di un tweet».

2 dicembre 2016
debutta la nostra rubrica di recensioni e consigli. si comincia con "Morimondo" di Paolo Rumiz.

Rumiz non è nuovo a viaggi leggendari: come quando attraversò l’Europa in bicicletta, da Trieste ad Istanbul, oppure quando percorse l’enorme punto interrogativo al contrario che rappresenta l’ossatura d’Italia, ottomila chilometri per raccontare le Alpi e gli Appennini.
Questa volta l’autore traccia una via d’acqua: anzi, la via d’acqua, il Po, il Grande Monosillabo, come lui lo chiama, da Staffarda ai piedi del Monviso fino a Chioggia, alla foce, anzi, ad una delle mille foci. Con mezzi di trasporto diversi a seconda della geografia e quindi delle caratteristiche del corso d’acqua: Prospector prima, Old Town Ranger poi, e infine pignatta. E con compagni di viaggio che di volta in volta si avvicendano: c’è chi arriva (Paolo, del quale Rumiz scrive “In quella sinfonia, il compassato Paolo diventava un’altra persona: tracimava di felicità, viveva il ‘qui ed ora’ col fatalismo gioioso di un’iniziazione”) e chi, a malincuore, abbandona l’equipaggio (Valentina, “instancabile ricercatrice di montagne e guai”, che “sa di cercatori d’oro, dialoga con gli ultimi barcaioli, e cerca fiori nelle lande più desolate”).
Un viaggio lento, di esplorazione, denuncia, scoperta, poesia, abbandono, lungo il fiume che noi italiani dovremmo valorizzare e venerare, come una dea madre, e che invece è diventato una risorsa nel senso più biecamente utilitaristico del termine, da depredare di acqua, rena ed energia, e un immondezzaio, dove sversare ogni schifezza immaginabile: “Disse del fiume una cosa struggente -scrive Rumiz, riferendo le parole di un compagno di viaggio-: la sua capacità illimitata di farsi carico, come il Cristo, di tutte le nostre immondizie, colpe, stoltezze.”
Navigando il lettore entra in un’altra dimensione, fatta di attracchi, sponde, siluri, anacronistici ponti di barche, rumori e silenzi, in un orizzonte inevitabilmente limitato, ma che si apre se solo ci si alza in piedi sulla barca. Andando a caccia di affluenti, visitando i paesi sulle rive (Boretto, per esempio, luogo antico, perché ancora sa cosa sono le burle), mangiando in locande dall’aspetto di catapecchie, collezionando i resoconti dei pescatori, ascoltando il frinire delle cicale e delle stelle nelle notti all’addiaccio, superando le trappole insidiose tese dalle centrali idroelettriche, che dissanguano il fiume. Per sfociare infine nel mar Adriatico: “Uscire da uno spazio chiuso e vedere l’immenso orizzonte. Assistere al mistero di una linea che diventa spazio.”
Il Po di Rumiz è custode maestoso di bellezze e rarità, ma è anche collettore delle bruttezze prodotte dall’uomo. Il libro, attraverso fatti, immagini, incontri racconta anche il rapporto tra l’uomo e la natura: equilibrato fino a quando l’uomo ha avuto timore della natura, conflittuale ed impari da quando l’uomo si è ficcato in testa l’idea di esserne il dominatore. I toni dell’autore in questo oscillano tra la rassegnata denuncia e il desiderio di riscatto, di lotta: “Smettiamola di dire che il fiume è morto e che non c’è più niente da fare. Così forniamo solo la giustificazione a procedere a chi ha tutto l’interesse a manometterlo definitivamente.”

Parto dal presupposto che a questo punto della mia carriera di collaborazioni inizio a contarne davvero tante, tantissime direi, ognuna di loro ha una sua storia, è nata in particolari circostanze. Non posso fare a meno di sottolineare, non perché sono ospite di queste sue “pagine virtuali”, che quando un rapporto va al di là della musica – come quello che c’è tra me e Daniele – le collaborazioni diventano quasi suggestive perché quello che ci metti dentro non è solo musica.
Così l’invito di Daniele è stato un po’ come l’arrivo in cima, in cima a una grande intesa, soprattutto umana, ne sono stato felice ma forse non del tutto stupito. Stava realizzando un disco molto particolare, e nella ricerca di qualcosa di “strano” credo che abbia riconosciuto in me il musicista poliedrico che poteva fare al caso suo, Acrobati suona infatti in molti modi diversi nonostante i brani riescano a mantenere un trait d’union fra loro, davvero un lavoro di grande equilibrio, è proprio il caso di dire che mai titolo fu più appropriato.
Ricordo distintamente la mia prima reazione all’ascolto de La guerra del sale, è stato qualcosa tipo: “Wow! Daniele ha fatto veramente un pezzo hard core!”. trioPerché, che lui sia fuori da ogni accademia è fuor di dubbio, ma questo pezzo suonava davvero hard core, una delle cose che più mi piacciono e non nascondo di essermi – neanche tanto metaforicamente – sfregato le mani, il panorama che mi si dispiegava davanti era oltre ogni più rosea previsione.
Ho approcciato il brano da un punto di vista più ritmico, che è poi il mio modo di operare all’interno degli arrangiamenti e quando ho pensato a come realizzare qualcosa che si legasse al magma sonoro del pezzo ho ritenuto che sperimentare fosse la strada migliore, anche sui suoni stessi: ci sono sovrapposizioni, cluster veri e propri all’interno dei quali faccio scorrere delle note glissate dei tromboni (apro una parentesi per un elogio al talento di Mauro Ottolini che quei tromboni li ha suonati), e poi c’è questa esplosione di melodie, delle quali la principale ha un arrangiamento con delle note al limite della dissonanza tra di loro, che però stanno benissimo perché anche la struttura armonica del pezzo è molto aperta, quasi modale. E poi insomma… “eravamo in tre”! Sapere che a un certo punto avrebbe attaccato Caparezza mi dava la certezza che la chiave da ricercare era quella dell’insolito.
La connessione fra i tre, a vederla, è quella tra persone che si conoscono, che si stanno simpatiche, che si divertono, ma bisogna anche considerare che i tre mondi che si incontrano sono abbastanza diversi tra loro, ognuno ha una propria identità specifica, stare in tre su quel filo teso è stata senza dubbio un’altra bella acrobazia per la quale mi sento di ringraziare sia Daniele che Michele.

Due ore e mezzo in macchina da Roma. Ussita è lì. Superi Terni e improvvisamente ti rilassi. Perché da lì inizia la Valnerina. Cominci con la cascata della Marmore, tra le più alte d’Europa. Poi una strada bellissima, una delle preferite – non a caso – dai motociclisti. Due corsie, curve, verde ai lati, le montagne davanti, l’esplosione dei colori.
Il padre di mio nonno è nato qui. Mia madre negli anni ’50 ci metteva 7 ore per arrivare, perché la strada non era asfaltata. Il padre di mio nonno è nato a Ussita. Noi lì abbiamo casa e lì abbiamo passato ogni estate e quasi tutti gli inverni.
Ussita la conosco prima che dai miei ricordi, da quelli di famiglia.
Lì si scia: sul filo della memoria. La “Piccola Svizzera”, mi hanno ripetuto per anni con quell’orgoglio delle origini. Perché lì si scia. Per raggiungere la seggiovia di Frontignano, sono 15 minuti. Piste facili, tranne una: il canalone, ripidissimo. Che ho fatto solo in estate, a piedi.
Ussita è piccola: una piazza principale con il bar centrale dove si vendono giornali, libri e fumetti; la chiesa, ovviamente, con le sue processioni.
Due parchi, il cinema (aperto solo a luglio e agosto). C’è il ferramenta, dove trovare anche i giochi per i bambini. Due parchi (in uno c’è il minigolf), il cinema (aperto solo luglio e agosto), la farmacia e il tabacchi, dove puoi comprare anche il bagnoschiuma. C’è la sede del Comune e una strada che collega le frazioni più piccole: Pieve, Vallazza, Tempori, e le altre. È ai piedi del Bove. Un monte che al tramonto si tinge di rosa, completamente.
“Ma che fai per tre mesi a Ussita”? Mi chiedevano i miei amici di città quando eravamo al liceo. Facile: passavamo luglio e agosto tra ping pong e biliardino, tra una sala giochi (da qualche anno non c’è più) e i tavoli del parco Ruggeri a giocare a carte.
Andavamo a Visso, che è a quattro chilometri e mezzo di distanza, uno dei Borghi più belli d’Italia e Bandiera Arancione certificata dal Touring Club Italiano (questo quando andavo al liceo non lo sapevo). Lì c’è “Il Laghetto”, punto di ritrovo dei giovani del posto.
E il bar Sibilla (tra i più fotografati adesso con il terremoto, la casa sopra è crollata). Tra i più fotografati anche in ogni mia estate, dato che fanno paste e cioccolate eccezionali. C’è il lago, vicino Ussita, artificiale e suggestivo. È a Fiastra, mezz’ora di macchina, circondato da montagne. Con il tempo giusto l’acqua diventa verde e azzurra, come gli alberi e il cielo che lo circondano. Ci si arriva passando per il santuario di Macereto (che ha resistito alle scosse più forti, la meta preferita per i pic nic dei turisti) e Cupi (tra le mie, di mete preferite, dato che ci sono due agriturismi eccezionali).
Dalle foto di questi giorni non si vede e forse non si sa, ma Ussita è anche un posto per chi ama lo sport: ci sono campi da calcio e tennis; e c’è un grande palaghiaccio, una pista per pattinare omologata per le gare di hockey. C’è anche una piscina, coperta, e un solarium per prendere il sole fuori. C’è un maneggio, dove quest’estate le mie nipoti sono andate per la prima volta a cavallo. E la bici, quello sì. Avevamo tutti la bici. Il mio edicolante di Roma, che è uno appassionato da anni, quest’estate si è fatto un giro al Fargno passando per il lago di Fiastra. C’è stato una sola volta e si è innamorato. Mi ha chiamato (mai fatto in 15 anni che lo conosco) dopo il terremoto per avere notizie del posto. A Ussita si mangia, anche. Nel senso che si mangia bene. Ci sono i pastori, le capre e le vacche, circondati dagli immancabili maremmani.
C’è la ricotta appena fatta da mettere nel caffè e c’è il ciauscolo, un insaccato morbido, da spalmare, realizzato con la carne di maiale. C’è l’amaro Sibilla, fatto con le erbe e imprescindibile in ogni tavola.
La montagna e le passeggiate, che con Ussita si pronunciano in una parola sola, tutto attaccato, per me sono arrivate con l’età della ragione.

2 novembre 2016
Sebastiano De Gennaro racconta la nascita della collana di dischi 19'40" realizzata con Enrico Gabrielli e Francesco Fusaro

C’era una volta un Re, che disse alla sua serva, raccontami una favola, e la serva incominciò: c’era una volta un disco, intitolato 19’40”, per la precisione era il 2013 quando io ed Enrico Gabrielli pubblicammo  tale disco dedicato alla musica di John Cage da lui composta nell’anno 1940. Lo sapete chi era John Cage? Era un micologo? O forse un musicista? Beh, questa è un’altra favola e magari ve la racconto al prossimo concerto. Ma torniamo alla favola delle 19:40, si perché è proprio a quest’ora che dal primo dicembre 2016 cominceremo a pubblicare i dischi della nostra nuovissima collana discografica, che si chiama, per chiudere il cerchio, 19’40”!

Che ore sono? Che anno è? Qual è la favola? Qual è il Re? …se ho fatto solo confusione in questo preambolo colmo di numeri da qui in giù proverò a spiegarmi meglio. 
Intanto, vi ricordate di me? Sono Sebastiano de Gennaro, l’omino buffo con gli occhiali (citazione) che suona strumenti strani con il vostro Presidente. Ed è proprio perché mi occupo di musica, di suoni e di strumenti particolari, che Daniele (sempre attento e curioso) mi ha chiesto di raccontare a La Voce del Megafono che cosa sia esattamente 19’40”.
Diciannove e Quaranta è una collana di dischi su abbonamento pensata da me ed Enrico Gabrielli assieme al musicologo Francesco Fusaro, nata quest’anno per raccogliere, curare e diffondere il nostro lavoro sulla musica scritta. Minime, semiminime, crome, semicrome, semibiscrome, pause, chiavi ..corone; qualsiasi tipo di musica purché abbia un attinenza col segno sulla carta, con la notazione musicale e non solo, anche col fumetto, col disegno, con l’illustrazione. Ogni disco sarà curato graficamente da un diverso artista, e sarà accompagnato da un booklet contente un testo critico di Francesco Fusaro, per comprendere meglio cosa state ascoltando e che lavoro abbiamo fatto.
Dunque non è solo una favola ma una storia di musica, di idee, di dischi, di pacchetti, spedizioni e cassette postali: chi si abbona riceverà un disco ogni quattro mesi, 
il primo in arrivo (1 dicembre 2016) sarà una raccolta di trascrizioni di brani tratti dal repertorio di band strumentali italiane di area math-rock, noise, avant-garde, realizzate sapientemente da Enrico per il nostro ensemble di sei elementi (violino, pianoforte, oboe, clarinetto, basso tuba e percussioni). Parliamo quindi di trascrizione di musica ‘folklorica’ mai riportata prima su carta pentagrammata. La seconda uscita prevista per il 2 aprile 2017 sarà l’Histoire du Soldat di Igor’ Stravinskij, la Storia del Soldato, una meravigliosa opera da camera del 1918, anch’essa scritta con inchiostro su carta… una vera e propria favola russa, per l’occasione recitata in italiano da Stefano Panzeri ed illustrata con i disegni di Olimpia Zagnoli. E poi via via altri dischi per scoprire musica di cui forse in molti in questo momento non conoscono nemmeno l’esistenza.

24 febbraio 2016
di Paolino De Francesco (autore della copertina di "Acrobati")

Mi occupo di “grafica applicata alla musica” dal 1996 e ho avuto l’opportunità di lavorare con artisti noti e meno noti. Lavoro senza dubbio meglio quando tra me e l’artista per cui devo realizzare la copertina c’è stima reciproca. Nel caso di Daniele la mia stima per lui risale al 1995, anno della sua prima apparizione a Sanremo, quando portò sul palco dell’Ariston “L’uomo col megafono”. Con Daniele avevo poi lavorato all’artwork dell’album “Monetine”, raccogliendo circa 400 monete di diversi paesi per riuscire a comporre il suo ritratto. Un lavoro che potrebbe sembrare quasi più tecnico che creativo, ma il risultato ha avuto la sua efficacia ed è riuscito ad interpretare le esigenze commerciali di quella che era una raccolta


"La voce del Megafono" V.le G.Mazzini 114/a - 00195 - Roma - cod.Fisc e P.Iva: 12263531001