Se pensi che adesso io ti spieghi quali sono le motivazioni che mi spingono a riempire una pagina vuota, ti sbagli. Nel mio mondo non esiste la motivazione. Io non sono motivato a fare quello che faccio. In quanto artista avverto un impulso, un’impellenza, sono trascinato da una forza che ha radici profonde in me, una forza così persuasiva che sembra vano cercare di spiegarla. Essa, tuttavia, ha un nome: passione. La passione è la calcina che tiene insieme i miei collage creativi, il motore delle mie azioni. Essendo in movimento perpetuo, possiede una componente di impazienza. Di urgenza. E poiché esorta la mia arte a crescere, è indispensabile. Sospinto da simili venti di passione, per chi creo? Le mie performance sono per me stesso o per il pubblico? La mia risposta si colloca ai due estremi. Quando sono al parco e faccio giocoleria all’interno del mio cerchio di gesso ho bisogno di incuriosire i passanti, altrimenti non si fermeranno. Durante la performance il mio personaggio comico Lippo, che si nutre di folla, osserva gli spettatori, pronto a sfruttare ogni loro minima reazione. E nel momento in cui colgo un accenno di torpore che aleggia tra il pubblico, smetto di giocolare e parto con un coup de theatre che sicuramente sveglierà tutti quanti: suono il fischietto e lego una fune tra due alberi! Allo stesso tempo, se voglio offrire la più sincera delle performance, devo essere completamente solo. Devo essere prigioniero della fortezza della mia arte.
Ricordi quella bella intervista fatta coi tuoi compagni di bisboccia Niccolò e Max durante il vostro tour a Milano? Ricordi che era per un Magazine televisivo su Rai5 chiamato Ghiaccio Bollente? Ecco, Ghiaccio Bollente Magazine da ieri sera non c’è più, e fra poco anche la fascia notturna, quella che ha reso insonne o traumatizzata al risveglio parecchia gente, non ci sarà più. Chiuso senza spiegazioni dai dirigenti di Rai5, la Rete della Cultura, per la quale la musica evidentemente non è cultura. Dirai, vabbè, fattene una ragione, c’est la vie. Sì, io una ragione me la farei pure (specie se belloccia), ma c’è parecchia altra gente che non l’ha presa benissimo. Al momento attuale circa 16.000, mica pochi. No, non li ho contati io, sono quelli che hanno firmato #saveGhiaccioBollente su change.org, uno di quei siti di petizioni assortiti che affiancano il poeta detenuto in Arabia Saudita con la proposta di Rocco Siffredi di portare l’educazione sessuale nelle scuole (tipo il lupo che entra nell’ovile). Oltre a firmare, hanno anche lasciato un commento, che come cosa mi piace molto, perché mi ricorda il vecchio, vecchissimo Indice di Gradimento, che quando ho cominciato a fare tv io –no, era già a colori- si affiancava all’Indice di Ascolto. Poi, nel tempo, è rimasto solo questo, ahimè, e i numeri sono valsi più della qualità. Perché di questo si tratta: per due anni abbiamo fatto un programma nel quale c’era musica italiana e straniera (e quando dico straniera intendo proprio di tutto, dal Brasile all’Africa, dalla Norvegia ai Caraibi) senza barriere di nessun genere. Rock, jazz, hip-hop, soul, blues, folk, world, mettici tu un’etichetta. Io penso che la musica sia una, l’importante non è chi la suona o dove vive, ma se sia di qualità o no.
Il clima è “la casa comune” degli uomini, ma solo il papa sembra ricordarlo: nessuno fra i potenti della terra riuniti a Parigi per la conferenza Cop21 ha osato neppure pronunciare queste parole. Nonostante siano praticamente ridotti al minimo gli scettici che, per anni, hanno prima cercato di minimizzare il riscaldamento atmosferico in atto e, poi, di attribuirlo alle macchie solari o ai raggi cosmici, tutto fuorché alle attività produttive dell’umanità. Vale la pena di ricordare che i 2500 scienziati che studiano il clima sono quasi tutti d’accordo su due possibili scenari. Il primo è che le temperature medie dell’atmosfera aumenteranno di 2°C nel prossimo mezzo secolo, cosa che comporterà conseguenze traumatiche di vario genere, a cominciare dalla fusione dei ghiacciai continentali e dal conseguente innalzamento del livello dei mari: dal 1965 si è fuso il 52% dei ghiacci artici, e, per fare un esempio, oltre un terzo di quelli del Kilimanjaro; mentre dal 1850 si sono dimezzati i ghiacciai alpini. Se la tendenza è questa, nel prossimo secolo le Dolomiti non avranno più nemmeno un ghiacciaio. In questo quadro il livello dei mari crescerà da 10 a 90 cm nei prossimi cinquant’anni causando l’annegamento degli atolli delle isole oceaniche, la perdita di gran parte delle barriere coralline, l’invasione di piane costiere da parte delle acque, l’incremento delle aree inondate durante le alluvioni. Aumenteranno le perturbazioni meteorologiche a carattere violento e le grandi inondazioni, che già sono cresciute da 2-3 per anno negli anni ’50, a oltre 20 negli anni ‘90 del XX secolo. Questo è lo scenario ottimista. Per configurare lo scenario pessimista, quello davvero grave, basta moltiplicare per dieci tutti i fenomeni prima elencati: ciò che accadrebbe nel caso in cui l’incremento delle temperature fosse –come pure è possibile ipotizzare– di 6°C. L’anidride carbonica è in aumento da 200 anni a questa parte come mai aveva fatto negli ultimi millenni, essendo passata da 280 a quasi 400 parti per milione, incremento che non può essere spiegato con i soli processi naturali, ma attraverso la combinazione di due processi interamente antropici, la deforestazione (1,5 miliardi di tonnellate di carbonio) e la combustione (6,5 miliardi di tonnellate).
C’avete presente Alberto Sordi ne “Le vacanze intelligenti”? La mia recente visita alla Biennale Arte di Venezia, evento fondamentale per l’arte e la comunicazione tutta, me ne ha restituita tutta la vividezza dell’interpretazione, la forza di un sentimento. Quest’anno, ad una manciata di ore dalla definitiva conclusione, ho deciso di andarla a visitare: due giorni alla ricerca di alcuni sporadici, troppo rari, momenti d’emozione, intervallati da quella che ai miei occhi è apparsa come l’ennesima celebrazione della fuffa, nella variante con e senza piedistallo. Premetto: non sono un esperto d’arte contemporanea e non voglio ergermi a tale; è un ambito che mi piace frequentare da spettatore, coi miei gusti, idee, preconcetti. Probabilmente sarò di palato troppo fino, perché arrivare a dieci opere/artisti memorabili è una faticata niente male, considerando i chilometri fatti attraverso una sequenza di espressioni di “tutti i futuri del mondo” (questo il tema della 56ma Biennale Arte) declinati attraverso i media più disparati, con una netta preponderanza delle video installazioni. La “video installazione” è una tipologia di espressione artistica che va molto. Consta di un videoproiettore, di un impianto audio e di una stanzina buia, con sedute o meno, in cui un corto/medio/lungo metraggio o un assortimento dei tre viene proiettato a ciclo continuo. Mi piace la video arte, ma a Venezia ce n’era un po’ troppa. Ogni panello divisorio celava un oceano di cinemini, alcuni dei quali deserti, altri non proprio profumati, riverberanti di sequenze cut up in bianco e nero, interviste a persone, diapositive di facce, altre interviste a persone, dettagli dell’acqua, molte altre interviste a persone, a volte a più persone. Una noia mortale.