QUOTIDIANO FONDATO NEL 1994
3 febbraio 2019
Di Enrico Gabrielli

Come funziona il Festival della Canzone Italiana dal punto di vista di coloro che devono occuparsi di quella strana macchina che si chiama “orchestra”?

Non posso dichiararmi un veterano, né tanto meno un fervente accolito della chiesa del Santo Remo.
Io ci sono stato nel 2009 che l’orchestra aveva lo stesso organico: flauto, oboe, due clarinetti (anche sassofoni), due trombe, due tromboni, archi, percussioni e il resto della ciurma rock con tre chitarristi, sei coristi, un bassista, un batterista e tre tastieristi. Mi pare che abbiano aggiunto solamente i corni francesi e per quanto avessi un vago ricordo ci fosse anche l’arpa, ciò non è vero: l’arpa a Sanremo c’era solo fino a vent’anni fa. L’assetto dell’organico, se si va a vedere le prime esibizioni televisive negli anni sessanta, era prevalentemente classico con elementi da jazz orchestra. L’orchestra negli anni ’80, con il playback, era addirittura scomparsa. In seguito, dagli anni novanta, sarebbe tornata tanto prepotente e battagliera da conformare uno standard sound “sanremese”, con un gusto e una retorica che arriva fino ad oggi.
Un fatto nuovo è che l’orchestra negli ultimi cinque o sei anni a Sanremo si ascolta meglio.
Uno degli adagi, per coloro che si cimentavano con il palco dei fiori era che l’orchestra non si sentiva mai bene in televisione.

Ma di preciso, cosa succede quando sei assunto nella baRAIcca?

I tempi di consegna delle parti d’orchestra del brano in genere sono subito dopo Natale. Il che significa che un pezzo inedito per Sanremo è stato vagliato dalla commissione tra ottobre e novembre e finito di missare a dicembre. DI sicuro la RAI non è ancora paperless: le parti vanno spedite in pacco espresso alla sede legale del Festival della Canzone Italiana nella versione cartacea, con una doppia copia d’archivio. Nei primi quindici giorni di gennaio viene fatta una lettura rapida senza il direttore e pochi giorni dopo una lettura meno rapida.

Quest’anno la disposizione in prova è a terrazzamenti, con la parte sinfonica in un piano ammezzato e la schiera estesa di musicisti pop della parte elettrica nel piano basso. Verso la ventina del mese di gennaio tutte le maestranze si trasferiscono al Teatro Ariston. Finché non è allestito il palco, non è dato sapere come sarà disposta l’orchestra. Ci sono casi in cui gli strumenti vengono smembrati e messi a mo’ di scenografia in giro per il teatro. E questa cosa, per chi dirige, è un problema gigantesco. Altro dettaglio che sfugge al telespettatore (ma che crea enorme disagio a tutti quanti) sono le dimensioni reali del Teatro Ariston. Generalmente a soffrirne di più sono gli strumenti che avrebbero bisogno di uno spazio vitale ampio: i tromboni, ad esempio, avrebbero necessità di libertà di azione per la coulisse e così i contrabbassi e i violoncelli per l’utilizzo dell’arco. A quanto pare, però, vivono da sempre una battaglia contro la claustrofobia.

Due ore e mezzo in macchina da Roma. Ussita è lì. Superi Terni e improvvisamente ti rilassi. Perché da lì inizia la Valnerina. Cominci con la cascata della Marmore, tra le più alte d’Europa. Poi una strada bellissima, una delle preferite – non a caso – dai motociclisti. Due corsie, curve, verde ai lati, le montagne davanti, l’esplosione dei colori.
Il padre di mio nonno è nato qui. Mia madre negli anni ’50 ci metteva 7 ore per arrivare, perché la strada non era asfaltata. Il padre di mio nonno è nato a Ussita. Noi lì abbiamo casa e lì abbiamo passato ogni estate e quasi tutti gli inverni.
Ussita la conosco prima che dai miei ricordi, da quelli di famiglia.
Lì si scia: sul filo della memoria. La “Piccola Svizzera”, mi hanno ripetuto per anni con quell’orgoglio delle origini. Perché lì si scia. Per raggiungere la seggiovia di Frontignano, sono 15 minuti. Piste facili, tranne una: il canalone, ripidissimo. Che ho fatto solo in estate, a piedi.
Ussita è piccola: una piazza principale con il bar centrale dove si vendono giornali, libri e fumetti; la chiesa, ovviamente, con le sue processioni.
Due parchi, il cinema (aperto solo a luglio e agosto). C’è il ferramenta, dove trovare anche i giochi per i bambini. Due parchi (in uno c’è il minigolf), il cinema (aperto solo luglio e agosto), la farmacia e il tabacchi, dove puoi comprare anche il bagnoschiuma. C’è la sede del Comune e una strada che collega le frazioni più piccole: Pieve, Vallazza, Tempori, e le altre. È ai piedi del Bove. Un monte che al tramonto si tinge di rosa, completamente.
“Ma che fai per tre mesi a Ussita”? Mi chiedevano i miei amici di città quando eravamo al liceo. Facile: passavamo luglio e agosto tra ping pong e biliardino, tra una sala giochi (da qualche anno non c’è più) e i tavoli del parco Ruggeri a giocare a carte.
Andavamo a Visso, che è a quattro chilometri e mezzo di distanza, uno dei Borghi più belli d’Italia e Bandiera Arancione certificata dal Touring Club Italiano (questo quando andavo al liceo non lo sapevo). Lì c’è “Il Laghetto”, punto di ritrovo dei giovani del posto.
E il bar Sibilla (tra i più fotografati adesso con il terremoto, la casa sopra è crollata). Tra i più fotografati anche in ogni mia estate, dato che fanno paste e cioccolate eccezionali. C’è il lago, vicino Ussita, artificiale e suggestivo. È a Fiastra, mezz’ora di macchina, circondato da montagne. Con il tempo giusto l’acqua diventa verde e azzurra, come gli alberi e il cielo che lo circondano. Ci si arriva passando per il santuario di Macereto (che ha resistito alle scosse più forti, la meta preferita per i pic nic dei turisti) e Cupi (tra le mie, di mete preferite, dato che ci sono due agriturismi eccezionali).
Dalle foto di questi giorni non si vede e forse non si sa, ma Ussita è anche un posto per chi ama lo sport: ci sono campi da calcio e tennis; e c’è un grande palaghiaccio, una pista per pattinare omologata per le gare di hockey. C’è anche una piscina, coperta, e un solarium per prendere il sole fuori. C’è un maneggio, dove quest’estate le mie nipoti sono andate per la prima volta a cavallo. E la bici, quello sì. Avevamo tutti la bici. Il mio edicolante di Roma, che è uno appassionato da anni, quest’estate si è fatto un giro al Fargno passando per il lago di Fiastra. C’è stato una sola volta e si è innamorato. Mi ha chiamato (mai fatto in 15 anni che lo conosco) dopo il terremoto per avere notizie del posto. A Ussita si mangia, anche. Nel senso che si mangia bene. Ci sono i pastori, le capre e le vacche, circondati dagli immancabili maremmani.
C’è la ricotta appena fatta da mettere nel caffè e c’è il ciauscolo, un insaccato morbido, da spalmare, realizzato con la carne di maiale. C’è l’amaro Sibilla, fatto con le erbe e imprescindibile in ogni tavola.
La montagna e le passeggiate, che con Ussita si pronunciano in una parola sola, tutto attaccato, per me sono arrivate con l’età della ragione.


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