Mi è sempre piaciuto giocare con le parole. Ma anche con i numeri è divertente a volte. Tipo il 6 (sesta volta sul palco di Sanremo) e il 9 (nono disco in arrivo), che messi insieme fanno 69 come le edizioni del festival. Ma sinceramente non credo la cosa abbia un qualsiasi significato. E comunque tra i due numeri preferisco il 9, nel senso che è al disco che penso molto più che al festival, a quello tengo davvero e per quello soffro, mi ingegno, mi deprimo, mi entusiasmo, mi preoccupo, mi esalto.. Però siccome Sanremo è Sanremo, va sempre a finire che per qualche settimana…non sembra esserci altro. Poi quando sei qui ancora di più…si rischia di perdere anche un po’ il contatto con la realtà, che invece tendenzialmente va avanti senza curarsi granché di ciò che accade qui in riviera.
Però così è, e in fondo ci dovrei essere abbondantemente abituato. Perché – tanto per restare sui numeri – 24 anni sono passati da quando venni per la prima volta al festival di Sanremo. Era il 1995 e mi presentavo con L’uomo col megafono. Non avevo un vero megafono in mano – come molti invece sembrano ricordare, traditi dal titolo e da un ragionamento fondamentalmente logico – però avevo un grosso zaino verde da cui estraevo cartelli colorati su cui avevo scritto parti del testo della canzone. Qualcuno volle vederci un riferimento a Bob Dylan e alla sua “Subterranean Homesick Blues” il che non poteva che inorgoglirmi, ma soprattutto sentivo il bisogno di attirare l’attenzione solo ed esclusivamente sulle parole. Non su chi le pronunciava. Idea peraltro venuta a poche ore dalla prima esibizione, come sempre mi accade, e accolta dall’eterno Pippo Baudo con la solita disponibilità e l’affetto che mi ha sempre riservato (come quando 7 anni dopo accettò la follia di farmi esibire con un “ballerino” al mio fianco all’ultima serata – nell’anno di Salirò – pur avendoglielo proposto solo la sera prima).
Non ero un ragazzino neanche allora tutto sommato. Avevo già pubblicato un disco l’anno prima e sul palco dell’Ariston ero già salito per ben due volte. La prima per ricevere il premio Tenco per il miglior album d’esordio del 1994, la seconda per partecipare a un antesignano Sanremo Giovani che sempre SuperPippo volle celebrare per scegliere i futuri partecipanti del festivalone. Passammo io, un giovanissimo Grignani e il melodico Gigi Finizio.
Una vita fa.
Però a distanza di così tanto tempo posso dire che – nonostante non lo percepissi mai sul momento, ché anzi non vedevo l’ora di essere altrove – a quel palco sono legate tappe fondamentali della mia vita. Il megafono non l’ho mai più posato (almeno metaforicamente) se ancora adesso dà il titolo a questa specie di sito-giornale. Salirò sembra non conoscere il passare del tempo. Aria (era il 1999) spesso diventa uno dei momenti più emozionanti e significativi quando la suoniamo in concerto. La paranza con la sua colorata leggerezza mi ha conquistato a un bel pezzo di paese che ne aveva forse bisogno. Con A bocca chiusa ho portato sul palco dell’Ariston e nella mia vita la ricchezza del mondo della LIS, la lingua italiana dei segni, e una storia di strade e piazze romane che per me risale almeno a mio padre..
Ora non so cosa succederà questa volta, e neanche voglio saperlo. So che Argentovivo era già un pezzo (im)portante di questo nuovo disco, ma soprattutto un passaggio importante della mia vita (privata ancor prima che professionale).
Per questo ribadisco, i numeri mi interessano poco. Ma le parole.. spero arrivino il più lontano possibile.
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